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Disturbo Borderline di Personalità (DBP)
Disturbo Borderline di Personalità (DBP)
Introduzione
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è un disturbo mentale grave, appartenente al cluster B dei disturbi di personalità, caratterizzato da una pervasiva instabilità delle emozioni, dell'immagine di sé e delle relazioni interpersonali
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. I pazienti con DBP sperimentano emozioni intense e fluttuanti con marcata difficoltà a regolarle, e spesso hanno una visione di sé e degli altri instabile o distorta, che porta a rapporti interpersonali turbolenti. È tipicamente presente un profondo timore dell’abbandono, che può innescare comportamenti disperati per evitare la separazione (ad es. suppliche, ricatti emotivi o al contrario rifiuto anticipatorio). Dal punto di vista comportamentale, l’impulsività è una caratteristica chiave e si manifesta in condotte potenzialmente dannose per il soggetto, come abuso di sostanze, spese compulsive, sessualità promiscua o guida pericolosa. Frequenti sono i gesti autolesivi o i tentativi di suicidio, spesso reattivi a eventi interpersonali vissuti come abbandonici. Altri aspetti clinici comuni includono sentimenti cronici di vuoto interiore e episodi di rabbia intensa e inappropriata, con difficoltà a controllare l’ira. In situazioni di stress possono inoltre comparire ideazione paranoide transitoria o sintomi dissociativi. Questa costellazione sintomatologica rende conto dell’elevata sofferenza e disfunzionalità associata al DBP, che rappresenta dunque un importante problema di salute mentale.
Caratteristiche cliniche
Dal punto di vista clinico, il DBP si manifesta con un quadro eterogeneo di sintomi affettivi, cognitivi e comportamentali. I pazienti vivono in un altalenante vortice emotivo: l’instabilità affettiva si traduce in oscillazioni rapide del tono dell’umore (es. passaggio brusco da euforia a disperazione) e in una marcata reattività emotiva a stimoli ambientali. Le relazioni interpersonali sono intense e instabili, caratterizzate da alternanza tra idealizzazione e svalutazione dell’altro, con frequenti conflitti. La percezione di possibili rifiuti o separazioni scatena angoscia intollerabile; la persona con DBP può reagire con sforzi frenetici per evitare l’abbandono, talvolta mettendo in atto comportamenti impulsivi o minacce autolesive in risposta a queste paure
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. È spesso presente una disturbata identità: il senso di sé è poco integrato e molto mutevole, con autovalutazioni polarizzate (ora grandiose, ora depreciative) e un persistente sentimento di vuoto. Sul piano comportamentale domina l’impulsività, che si manifesta in almeno due aree potenzialmente dannose (spese sconsiderate, promiscuità sessuale, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate alimentari, ecc.). Un tratto caratteristico è la disregolazione comportamentale in risposta allo stress: circa il 75% dei pazienti con DBP compie atti autolesivi o tentativi di suicidio nel corso della vita
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, il che contribuisce a un rischio di suicidio ultimato intorno al 5% – significativamente più alto che in altri disturbi di personalità
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. Si osservano inoltre accessi di rabbia intensa e difficilmente controllabile, spesso sproporzionata rispetto ai trigger, che possono sfociare in aggressività verbale o fisica. In momenti di stress estremo, specie legati a dinamiche di attaccamento, possono emergere sintomi transitori dissociativi o paranoidei, espressione di episodi psicotici brevi e reversibili. Va sottolineato che il DBP spesso co-occorre con altri disturbi psichiatrici: sono comuni le comorbidità con disturbi dell’umore (presenti in ~83% dei casi), disturbi d’ansia (85%), disturbi da uso di sostanze (78%) e altri disturbi di personalità (53%), così come con disturbi alimentari e da stress post-traumatico
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.
Questa frequente comorbilità contribuisce alla complessità del quadro clinico e rappresenta una sfida diagnostica e terapeutica.
Sottodimensioni e tipologie cliniche
Il DBP è un’entità clinica eterogenea, e diversi autori hanno ipotizzato sottotipi o sottodimensioni all’interno del disturbo. Sebbene il DSM-5-TR non preveda una suddivisione formale in sottotipi, in letteratura sono state descritte variazioni fenotipiche significative. Ad esempio, analisi statistiche di clustering hanno suggerito l’esistenza di almeno tre sottogruppi sintomatologici: un ampio gruppo con i sintomi “nucleari” del disturbo (instabilità affettiva e interpersonale, impulsività, ecc.), un sottogruppo con tratti esternalizzanti (impulsività marcata associata a caratteristiche antisociali/narcisistiche/istrioniche) e un sottogruppo più piccolo con prominenti caratteristiche psicotiche o schizotipiche (es. ideazione paranoide, pensiero magico) sovrapposte al quadro borderline
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. Altri clinici, in epoche precedenti, distinguevano profili quali il borderline impulsivo, l’autodistruttivo, il petulante o l’internalizzante, sottolineando di fatto diverse combinazioni di aggressività eterodiretta vs autodiretta e diversi livelli di funzionamento apparente. Queste tipizzazioni non hanno valore diagnostico ufficiale ma evidenziano la variabilità di presentazione del DBP: alcuni pazienti manifestano prevalentemente condotte impulsive e acting-out, altri tendono a dirigere la distruttività verso sé stessi; alcuni mostrano maggiore disregolazione affettiva “esterna” e conflittualità interpersonale aperta, altri presentano una sofferenza più internalizzata (il cosiddetto “quiet borderline”) con marcata depressione e ritiro, pur condividendo il nucleo psicopatologico di fondo. Riconoscere queste sfumature cliniche può aiutare il clinico a personalizzare l’approccio terapeutico, pur tenendo presente che il trattamento base rimane centrato sui meccanismi comuni del disturbo.
Aspetti epidemiologici
Il DBP ha una prevalenza non trascurabile nella popolazione generale adulta, stimata tra lo 0,7% e il 2,7%
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. Studi epidemiologici su ampi campioni comunitari hanno riscontrato una prevalenza point (attuale) intorno all’1-2%, con una prevalenza lifetime (nell’arco della vita) attorno al 2-3%
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. Nei contesti clinici, la frequenza del DBP è decisamente più elevata: si stima che circa l’11-12% dei pazienti ambulatoriali psichiatrici e fino al 20-22% dei pazienti ricoverati in reparti psichiatrici soddisfi i criteri per DBP
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. La distribuzione per sesso del disturbo mostra differenze interessanti: nella popolazione generale la prevalenza è simile tra donne e uomini (ad esempio, uno studio negli USA ha trovato il 3,0% nelle femmine vs 2,4% nei maschi)
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, mentre nelle casistiche cliniche circa il 70-75% dei diagnosti di DBP riguarda pazienti di sesso femminile
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. Questa discrepanza potrebbe riflettere un bias di selezione (le donne tendono più spesso a cercare aiuto o vengono inviate in trattamento, oppure gli uomini con tratti borderline ricevono altre diagnosi come il disturbo antisociale) più che una reale differenza di base nella prevalenza. L’esordio del disturbo avviene tipicamente nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. In passato si evitava di formulare diagnosi di DBP in soggetti di età inferiore ai 18 anni, temendo la stigmatizzazione e considerando i tratti personologici ancora in via di assestamento. Tuttavia, attualmente la diagnosi in adolescenza non è più ritenuta controversa né inappropriata: l’evidenza clinica indica che il DBP può essere attendibilmente riconosciuto già verso 15-16 anni, e una diagnosi precoce permette di avviare interventi tempestivi riducendo sofferenza e costi sociali
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. Studi comunitari stimano una prevalenza di circa l’1% nei teenager e una prevalenza cumulativa fino al 3% entro i 22 anni
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, analogamente a quanto osservato negli adulti giovani. Come già accennato, il DBP è spesso accompagnato da altri disturbi in comorbidità, in particolare depressione maggiore, disturbi d’ansia, disturbo da stress post-traumatico, disturbi del comportamento alimentare e abuso di sostanze
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. Questa comorbilità contribuisce all’elevato carico assistenziale del disturbo: il DBP è associato a un intenso utilizzo di servizi sanitari e a costi economici e sociali molto alti, superiori a quelli di disturbi come depressione, disturbi d’ansia o diabete
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. Un altro dato epidemiologico rilevante è l’eccesso di mortalità. Oltre al già citato rischio suicidario aumentato (si stima che circa il 5% dei pazienti DBP morirà per suicidio)
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, le persone con DBP presentano più frequentemente problemi di salute fisica (malattie metaboliche, cardiovascolari, infettive, ecc.) e comportamenti a rischio, che contribuiscono a una riduzione complessiva dell’aspettativa di vita. Studi di follow-up a lungo termine hanno evidenziato che i pazienti con DBP possono avere un’aspettativa di vita mediamente inferiore di alcuni anni rispetto alla popolazione generale, a causa sia di morti per suicidio sia di altre cause legate a stili di vita disfunzionali
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. Questi dati sottolineano la gravità del disturbo e l’importanza di un trattamento adeguato e precoce.
Aspetti eziologici
L’eziologia del DBP è multifattoriale, risultante dall’interazione tra fattori biologici e ambientali. Dal punto di vista genetico, studi sui familiari e sui gemelli indicano una componente ereditaria moderata: la ereditabilità del disturbo è stata stimata intorno al 40-50%
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. Ciò significa che circa la metà della variabilità di vulnerabilità al DBP nella popolazione è spiegata da fattori genetici, sebbene finora non siano stati identificati singoli geni specifici responsabili. È stata osservata un’aggregazione familiare significativa: ad esempio, i fratelli di individui con DBP presentano un rischio circa 4-5 volte maggiore di sviluppare il disturbo rispetto alla popolazione generale
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. I fattori genetici del DBP sembrano inoltre sovrapporsi parzialmente a quelli di altri disturbi (come depressione maggiore, disturbo bipolare e schizofrenia), suggerendo una condivisione di vulnerabilità biologiche aspecifiche. Sul versante ambientale, un ruolo cruciale è rivestito dalle esperienze avverse precoci. Numerosi studi hanno documentato una forte associazione tra DBP e storie di trauma infantile, in particolare abusi fisici e sessuali, maltrattamento emotivo e trascuratezza durante l’infanzia
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. Una recente meta-analisi ha quantificato tale legame: le persone con DBP hanno una probabilità circa 13 volte superiore di aver vissuto avversità infantili rispetto a individui senza psicopatologia
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. In particolare, l’abuso emotivo e la trascuratezza risultano tra le esperienze più correlate al successivo sviluppo di sintomi borderline. È importante notare che simili esperienze traumatiche sono frequenti anche in altri disturbi, per cui non sono specifiche del DBP; tuttavia, nel DBP esse sembrano assumere un ruolo particolarmente centrale nel modellare la disregolazione emotiva e interpersonale. Coerentemente con queste evidenze, si riscontrano spesso nei pazienti borderline stili di attaccamento disorganizzato o insicuro: l’instaurarsi di modelli di attaccamento confusi (dovuti magari a figure di accudimento maltrattanti o imprevedibili) contribuisce alle difficoltà nel regolare le emozioni e nel mantenere relazioni stabili in età adulta
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. Una delle teorie più accreditate per spiegare l’eziologia del DBP è il modello biosociale proposto da Marsha Linehan. Tale modello postula che il disturbo derivi dall’interazione tra una vulnerabilità biologica temperamentale (predisposizione a un’elevata reattività emotiva e impulsività) e un ambiente invalidante durante lo sviluppo. Un ambiente familiare invalidante è quello in cui le espressioni emotive del bambino vengono minimizzate, punite o ignorate, impedendo l’apprendimento di adeguate strategie di regolazione emotiva. Questa combinazione di emotività incontrollata e mancanza di rispecchiamento e guida esterna produce nel tempo la sintomatologia borderline (difficoltà a comprendere e gestire le proprie emozioni, percezioni instabili di sé, ricerca disperata di conferme esterne, ecc.). Il modello biosociale è coerente con le evidenze empiriche di cui sopra e funge da cornice teorica per uno degli approcci terapeutici più validati, la DBT. Dal punto di vista neurobiologico, il DBP è associato a disfunzioni in vari sistemi cerebrali e neuroendocrini implicati nella regolazione emotiva e dello stress. Studi di neuroimaging hanno evidenziato un’iper-reattività dell’amigdala e di altre regioni limbiche (che correlano con la forte reattività emotiva a stimoli minacciosi o frustranti), insieme a una relativa ipoattività della corteccia prefrontale ventromediale e dorsolaterale (aree deputate al controllo degli impulsi e alla modulazione delle risposte emotive). Questa combinazione può spiegare la tendenza a reazioni emotive tempestive e intense con scarso controllo cognitivo inibitorio. Inoltre, sono state riscontrate anomalie nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), il sistema ormonale dello stress: molti pazienti con DBP mostrano livelli alterati di cortisolo e una risposta allo stress disregolata, segno di un sistema di stress cronico iperattivato
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. Queste alterazioni potrebbero derivare proprio dall’esposizione ripetuta a traumi o stress relazionali in età precoce, che “sensibilizzano” l’organismo a rispondere in modo disfunzionale agli stress successivi. Sul piano neurochimico, alcune ricerche suggeriscono il coinvolgimento di squilibri nei sistemi serotoninergico e dopaminergico, in linea con i sintomi di impulsività-aggressività (legati a una ridotta funzione serotoninergica) e con i sintomi cognitivo-percettivi (dove possono essere implicate anomalie dopaminergiche). In sintesi, l’eziopatogenesi del DBP è riconducibile a una complessa interazione di predisposizioni biologiche (genetiche e neurobiologiche) e fattori di stress ambientali, che insieme alterano lo sviluppo dei circuiti di regolazione emotiva e cognitiva. Questa prospettiva integrata evidenzia anche la necessità di interventi multimodali: prevenire il maltrattamento infantile e promuovere contesti di sviluppo sani è fondamentale per ridurre l’incidenza del disturbo, così come risulta importante, in chi è già vulnerabile, lavorare terapeuticamente sia sugli aspetti biologici (ad es. gestione dello stress) sia su quelli psicologici derivanti dalle esperienze di attaccamento e trauma.
Trattamenti attuali
Il trattamento del DBP si basa principalmente su interventi psicoterapeutici specialistici, con l’obiettivo di aiutare il paziente a regolare le emozioni, sviluppare un senso di sé più stabile e migliorare il funzionamento interpersonale. La psicoterapia è considerata il trattamento di prima linea
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: numerosi studi clinici e meta-analisi hanno dimostrato che interventi psicoterapici strutturati specificamente per il DBP producono significative riduzioni della gravità dei sintomi rispetto al trattamento standard o al non trattamento
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. A partire dagli anni ’90 sono stati sviluppati diversi modelli terapeutici evidence-based per il DBP
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, quattro dei quali spiccano per efficacia empirica e diffusione clinica:
Terapia Dialettico-Comportamentale (Dialectical Behavior Therapy, DBT) – Sviluppata da Marsha Linehan, è un approccio di matrice cognitivo-comportamentale integrato con principi dialettici e mindfulness. Si focalizza sulla disregolazione emotiva: attraverso una combinazione di psicoterapia individuale e training di gruppo sulle abilità (skills training in mindfulness, regolazione emotiva, tolleranza dello stress e efficacia interpersonale), la DBT insegna al paziente strategie concrete per gestire le emozioni senza ricorrere a comportamenti distruttivi. La DBT è l’intervento per il DBP più studiato e con maggior supporto empirico: numerosi studi controllati ne attestano l’efficacia nel ridurre i comportamenti suicidari e autolesivi, la rabbia e l’impulsività
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. Originariamente concepita per pazienti con tendenze suicidarie gravi, oggi la DBT è impiegata in diversi setting (ambulatoriale, day-hospital, residenziale) ed è considerata uno standard of care per il DBP.
Terapia Basata sulla Mentalizzazione (Mentalization-Based Treatment, MBT) – Elaborata da Peter Fonagy e Anthony Bateman, è un trattamento di orientamento psicodinamico focalizzato sul migliorare la capacità di mentalizzazione, ovvero la capacità di comprendere gli stati mentali propri e altrui. L’MBT parte dal presupposto che i pazienti borderline abbiano difficoltà a mentalizzare sotto stress (soprattutto in contesti di attaccamento), finendo per reagire in modo impulsivo o confuso. Il percorso terapeutico, spesso in combinazione di setting individuale e di gruppo, aiuta il paziente a riconoscere e differenziare emozioni, pensieri e intenzioni proprie e degli altri, rafforzando così la regolazione emotiva e la stabilità nelle relazioni
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. Studi randomizzati hanno mostrato che l’MBT riduce i sintomi del DBP e migliora il funzionamento sociale, con effetti che permangono a distanza di anni dal trattamento.
Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (Transference-Focused Psychotherapy, TFP) – Ideata da Otto Kernberg, è un trattamento psicoanalitico moderno basato sulla teoria delle relazioni oggettuali. La TFP utilizza in modo intensivo la relazione terapeutica (e in particolare le dinamiche di transfert e controtransfert) per aiutare il paziente a integrare rappresentazioni scisse di sé e degli altri. Attraverso il lavoro sull’esperienza emozionale nel qui-e-ora della seduta, il terapeuta guida il paziente nel prendere coscienza delle estreme oscillazioni nelle percezioni di sé e degli altri, favorendo gradualmente una maggiore coerenza identitaria e relazionale. La TFP richiede setting ad alta frequenza (tipicamente sedute bisettimanali) ed è risultata efficace nel ridurre l’impulsività, l’aggressività e i sintomi borderline complessivi, come evidenziato da trial clinici controllati. Si tratta di un approccio indicato soprattutto per pazienti con funzionamento borderline più grave e con marcate distorsioni cognitive interpersonali.
Terapia focalizzata sugli Schemi (Schema Therapy, ST) – Sviluppata da Jeffrey Young, è un trattamento integrativo che combina elementi di terapia cognitivo-comportamentale, teoria dell’attaccamento e gestalt terapia, con l’obiettivo di modificare i “schemi maladattivi precoci” (credenze e pattern emotivo-comportamentali disfunzionali radicatisi nell’infanzia). Nel DBP, la Schema Therapy mira a identificare i vari mode (stati emotivi/parti del sé) che si attivano – ad esempio il “Bambino vulnerabile”, il “Protettore distaccato”, il “Punitore” – e a intervenire su di essi tramite tecniche cognitive, esperienziali (immaginative, role playing) e la relazione terapeutica stessa, improntata a una re-genitorializzazione limitata. Studi condotti nei Paesi Bassi hanno mostrato che la ST può essere altrettanto efficace della TFP e di altri trattamenti specialistici nel migliorare i sintomi del DBP, con percentuali di risposta clinica significativa intorno al 50-70% dopo diversi mesi di terapia intensiva. Alcune evidenze suggeriscono che la ST possa eccellere in particolare nel consolidare cambiamenti a lungo termine e nel ridurre al minimo le ricadute, grazie al lavoro profondo sui bisogni emotivi di base del paziente.
Tutti i suddetti interventi psicoterapici specialistici hanno evidenze di efficacia nel trattamento del DBP
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. Va notato che, nonostante differenze teoriche e tecniche, queste terapie condividono molti obiettivi (es. migliorare la regolazione affettiva, la consapevolezza di sé e la qualità delle relazioni) e mostrano risultati comparabili in termini di riduzione della sintomatologia generale del DBP. Una meta-analisi del 2017 ha confermato che le psicoterapie specifiche per DBP producono, in media, miglioramenti clinicamente significativi, con dimensioni d’effetto moderate sui sintomi borderline e una riduzione dei comportamenti autolesivi rispetto ai controlli
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. In pratica clinica, la scelta di un approccio rispetto a un altro può dipendere dalla disponibilità di terapeuti formati, dalle caratteristiche del paziente e dalle sue preferenze personali. In molti casi, elementi di diversi modelli vengono integrati (approccio integrativo) per rispondere ai bisogni individuali. Accanto alla psicoterapia, si può ricorrere in maniera mirata alla farmacoterapia, sebbene essa rivesta un ruolo secondario e sintomatico nella gestione del DBP. Non esistono farmaci con indicazione specifica per il disturbo borderline; tuttavia, farmaci psicotropi vengono spesso utilizzati off-label per trattare sintomi bersaglio o disturbi in comorbidità
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. Linee guida internazionali suggeriscono un uso prudente dei farmaci, puntando a monoterapie a breve termine mirate ai sintomi prevalenti, ed evitando la polifarmacoterapia cronica che frequentemente complica la gestione di questi pazienti. In particolare, possono essere impiegati stabilizzatori dell’umore (es. litio, acido valproico, lamotrigina) o alcuni farmaci antiepilettici per modulare l’impulsività e la reattività affettiva; antipsicotici atipici a basso dosaggio (es. quetiapina, olanzapina, aripiprazolo) per contenere sintomi cognitivi-percettivi, ideazione paranoide o rabbia intensa; e antidepressivi SSRI o altri ansiolitici per trattare la depressione e l’ansia spesso associate. È importante sottolineare che i farmaci hanno un’efficacia limitata sui sintomi nucleari del DBP e non modificano i pattern interpersonali o l’instabilità identitaria; il loro utilizzo è dunque volto principalmente a gestire condizioni concomitanti (es. un episodio depressivo maggiore, un disturbo d’ansia, ecc.) o a stabilizzare temporaneamente il paziente in momenti di crisi acuta, in attesa che la psicoterapia produca i suoi effetti
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. L’aderenza alla terapia farmacologica in questi pazienti può essere problematica (anche per la tendenza a vedere in modo estremamente positivo o negativo il terapeuta prescrittore e la cura stessa), pertanto l’utilizzo dei farmaci andrebbe sempre accompagnato da un attento monitoraggio della relazione terapeutica e della motivazione del paziente. In definitiva, la psicoterapia resta il perno del trattamento del DBP, mentre la farmacoterapia è un ausilio complementare, da impiegare con giudizio e per obiettivi specifici.
Riflessione clinica conclusiva
Dal punto di vista clinico, il trattamento del DBP richiede tempo, specializzazione e un approccio integrato. La complessità del disturbo – con il suo intreccio di vulnerabilità emotiva, cognizioni distorte e comportamenti disadattivi – si riflette nelle sfide che il terapeuta incontra: è frequente ad esempio che si attivino intense dinamiche relazionali in terapia, con idealizzazioni e svalutazioni del curante (splitting), test dei limiti e comportamenti impulsivi che possono mettere in crisi la cornice terapeutica. È fondamentale che il clinico mantenga un atteggiamento empatico e validante, offrendo al paziente un’esperienza relazionale diversa da quelle passate: il paziente borderline deve sentirsi visto e compreso nella sua sofferenza, ma al contempo guidato in modo fermo nell’assunzione di responsabilità per le proprie azioni e nel contenimento dei comportamenti autodistruttivi. In questo senso, la costruzione di una solida alleanza terapeutica è cruciale e spesso di per sé terapeutica: un’alleanza stabile fornisce una base sicura dalla quale il paziente può esplorare le proprie emozioni dolorose senza timore di essere abbandonato. Nonostante le difficoltà, la prognosi del DBP non è così negativa come un tempo si pensava. Studi longitudinali di lungo termine hanno mostrato che una percentuale significativa di pazienti raggiunge una remissione clinica sostenuta: ad esempio, oltre l’80% dei pazienti può ottenere una remissione sintomatologica che si mantiene per almeno 4 anni
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, soprattutto se viene offerto un trattamento adeguato. Con il passare degli anni, alcuni sintomi tendono spontaneamente a mitigarsi: in età più avanzata l’impulsività e i comportamenti autolesivi spesso diminuiscono, mentre possono prevalere sentimenti di vuoto e umore depresso residui
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. Ciò suggerisce che il decorso naturale del DBP non sia statico: molti pazienti, avvicinandosi alla mezza età, mostrano un miglioramento rispetto alla turbolenza giovanile. Tuttavia, persistono difficoltà nelle relazioni e nella regolazione emotiva che richiedono un supporto continuativo. È importante sottolineare che la remissione non equivale necessariamente a recupero pieno: anche quando i comportamenti distruttivi e i sintomi acuti si attenuano, restano spesso vulnerabilità interpersonali e tratti maladattivi che possono interferire con una vita pienamente soddisfacente (ad es. mantenere un impiego stabile, relazioni intime funzionali, ecc.). Pertanto, la presa in carico dovrebbe mirare non solo alla riduzione dei sintomi, ma anche al miglioramento del funzionamento globale e della qualità di vita, lavorando sulla costruzione di abilità sociali, lavorative e sulla progettualità di vita del paziente. In conclusione, il Disturbo Borderline di Personalità è una patologia complessa ma trattabile. Negli ultimi decenni, grazie ai progressi nella ricerca clinica, sono state sviluppate terapie efficaci e strategie di intervento mirate che hanno trasformato l’approccio a questi pazienti, un tempo considerati “ingestibili”. La chiave del successo terapeutico risiede in un intervento precoce, intensivo e prolungato, modulato sui bisogni del singolo individuo. Dal punto di vista del clinico, lavorare con pazienti borderline comporta inevitabilmente la gestione di forti emozioni (sia del paziente che proprie), ma offre anche grandi soddisfazioni: con il giusto supporto, molte persone con DBP riescono col tempo a costruire una vita più stabile, instaurare relazioni più sane e sviluppare un senso di identità più coeso. La speranza di un cambiamento positivo è dunque un messaggio centrale da trasmettere sia al paziente sia ai suoi familiari, combattendo lo stigma che circonda questo disturbo. In definitiva, il trattamento del DBP rappresenta un ambito in cui l’abilità e la sensibilità dello psicologo/psicoterapeuta possono fare una differenza profonda, aiutando il paziente a uscire dal caos emotivo verso un maggiore equilibrio e benessere.
Riferimenti bibliografici
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